«archi/vi»sual.
Modernismo contemporaneo.
Monografia su Nicola-Matteo Munari
a cura di Maria Burgio
nicola-matteo munari archivisual modernismo contemporaneo
«archi/vi»sual.
Monografia, 24×22 cm
64 pagine
Design: Maria Burgio
Ph. © Nicola-Matteo Munari
«archi/vi»sual è una monografia dedicata all’opera di Nicola-Matteo Munari, curata da Maria Burgio per il Dipartimento di progettazione e arti applicate dell’Accademia di Belle Arti di Catania.

Il titolo fa riferimento ai tre valori fondamentali che connotano il lavoro di Munari—architettura, dunque l’approccio architettonico alla progettazione; archivio, quindi la raccolta e la catalogazione sistematica dei progetti, svolta nell’ottica della valorizzazione e della comprensione culturale della progettazione; visuale, ovvero la forma d’espressione attraverso cui si manifesta la progettazione grafica.

Il sottotitolo—modernismo contemporaneo—richiama invece l’appartenenza a quei valori e a quella visione del design che perdura nel tempo, della quale Munari è un interprete contemporaneo.

La monografia si conclude con una intervista basata sulle domande che Munari stesso ha posto tante volte ad altri progettisti nell’ambito della pubblicazione di Designculture.

Un grandissimo ringraziamento va a Maria Burgio per aver concepito e realizzato il progetto della monografia.
nicola-matteo munari archivisual modernismo contemporaneoPh. © Nicola-Matteo Munari
MB: Quali designer l’hanno maggiormente influenzata?
  NMM: Personalmente Italo Lupi, con il quale ho avuto la fortuna di poter collaborare per alcuni anni. Essendo progettisti molto diversi non ha influenzato tanto il mio modo di progettare, ma ha contribuito alla mia formazione umana come professionista.
  Sono inoltre convinto che sia molto importante il legame che possiamo stabilire con i progettisti del passato, attraverso la lettura dei loro scritti e la comprensione del loro approccio alla progettazione. In questo senso mi sento culturalmente arricchito da molti progettisti che ci hanno lasciato in eredità i propri pensieri, tra questi Bob Noorda, Bruno Munari e Massimo Vignelli.
  Aldilà della grafica, invece, è stato fondamentale Adolf Loos, che più di ogni altro ha contribuito alla mia comprensione della progettazione in senso moderno.

Quali sono le caratteristiche di un buon design, un buon progetto?
  Se penso al mio design, l’essenzialità, la ricerca della precisione, il senso della misura e la volontà di dare un contributo estetico e culturale. Più in generale, credo che debbano variare di progetto in progetto. Tra le caratteristiche principali c’è infatti l’appropriatezza, anche se un buon progetto non deve limitarsi all’appropriatezza, ma deve valorizzare esteticamente il prodotto della progettazione e il contenuto della comunicazione.
  Sono infatti convinto che la qualità della forma sia di fondamentale importanza nel design, perché l’estetica non solo è funzionale all’utilizzo, ma è parte integrante della funzione stessa. In questo senso un’estetica intelligente e di alta qualità è una caratteristica imprescindibile affinché un progetto possa essere ritenuto buono.
  Il design, infatti, non può essere esteticamente scadente. Tuttalpiù il marketing potrebbe esserlo, perché nel marketing ciò che conta è vendere e dunque l’appropriatezza viene concepita esclusivamente come forma di adeguamento a uno status quo. Il design, invece, si fonda su dei presupposti sociali che implicano una volontà di miglioramento, dando un contributo utile.
  Aggiungo, infatti, che non credo nel concetto di buon design. Per me il design è necessariamente buono, oppure non è affatto design. La bontà del progetto, e dunque la sua utilità, è implicita nei presupposti stessi del design inteso come professione. È proprio per questo che è sorta la professione del design, che altrimenti avrebbe continuato a esistere in forma di arte applicata.

Qual è a suo giudizio un’estetica di alta qualità?
  Un’estetica di alta qualità è quella che contribuisce a valorizzare ciò che caratterizza. Quella che, attraverso la propria qualità, offre un contributo valoriale. Nell’ambito del design è quella che risulta non solo appropriata e funzionale, ma in grado di fornire un contributo migliorativo. Questo indipendentemente dalla forma. Non credo infatti che ci siano un’estetica buona e una cattiva, ma che ci siano tante, forse infinite, estetiche di valore e altrettante estetiche senza valore.
nicola-matteo munari archivisual modernismo contemporaneoPh. © Nicola-Matteo Munari
Com’è visto il graphic design italiano contemporaneo all’estero?
  Sono un progettista italiano attivo in Italia, quindi il mio punto di vista è inevitabilmente parziale. Se penso agli studenti stranieri per i quali ho tenuto lezioni nel corso degli anni, credo che ci sia un crescente interesse nei confronti della grafica italiana contemporanea, ma che manchi ancora una buona conoscenza. Questo a differenza della grafica italiana del passato che è invece conosciuta e apprezzata.
  Oggi buona parte della conoscenza passa attraverso i social, che non credo siano in grado di offrire e generare una reale comprensione dello stato della professione. È facile vedere profili di importanti studi e designer con pochissimi follower e quelli di perfetti sconosciuti, perlopiù designer amatoriali i cui progetti sono di fatto esercitazioni fini a se stesse, con un seguito sproporzionato.
  Per creare maggiore consapevolezza rispetto alla grafica italiana contemporanea servirebbe un impegno notevole da parte delle associazioni professionali, fatto però in un’ottica di selettività volta a valorizzare la qualità progettuale e dunque culturale.

Qual è la differenza tra arte e design? Può il design essere arte?
  La differenza è innanzitutto nelle intenzioni e nella diversa concezione delle due discipline—il design non nasce per essere arte e l’arte non nasce per essere design. Anzi, storicamente, il design ha avuto origine proprio per differenza rispetto a una forma d’arte, che era quella dell’arte applicata. In questo senso, lo scopo del design non è quello di essere una forma d’arte e la sua funzione non è quella di esprimere un valore artistico.
  Detto ciò, una volta che si è esaurito il suo scopo ed è venuta meno la sua funzione resta l’estetica del prodotto di design, che può avere un grande valore artistico in quanto tale. Pensiamo ai manifesti disegnati da Wim Crouwel per lo Stedelijk Museum. Sono opere d’arte? Nelle intenzioni certamente no, ma oggi, esaurita la loro funzione, sono indubbiamente delle straordinarie opere d’arte, che, a mio giudizio, meriterebbero di essere esposte nei più importanti musei d’arte.
  Credo inoltre che un prodotto di design possa diventare un’opera d’arte nel momento in cui, con il trascorrere del tempo, diventi non più solo l’esempio di un progetto ma la testimonianza di un progetto e dunque di una cultura progettuale, acquisendo così un valore storico, artistico e culturale, oltreché progettuale.
  Mi piace inoltre ritenere che, a un certo punto, la storia dell’arte sia evoluta in quella del design, che ne ha di fatto sostituito la presenza, la diffusione e l’importanza sociale. Ecco perché l’arte è diventata inevitabilmente ancora più inaccessibile, incomprensibile e fine a se stessa, dovendo necessariamente costituire un bene di lusso e una forma di esclusività. Sarebbe bello che la storia dell’arte venisse insegnata in continuità con quella del design e che nei musei fossero esposte fianco a fianco opere d’arte e oggetti di design.
nicola-matteo munari archivisual modernismo contemporaneoPh. © Nicola-Matteo Munari
Esistono ancora scuole e/o orientamenti nel design?
  Non solo esistono ma, attraverso internet e in particolare i social network, si stanno diffondendo sempre di più. Chiaramente si tratta di scuole e orientamenti trasversali ai luoghi e ai contesti, che rappresentano più che altro degli orientamenti stilistici privi di fondamenti culturali, ma in buona parte penso fosse così anche in passato. Credo in ogni caso che sia positivo che continuino ad esistere scuole e orientamenti liberamente condivisi e condivisibili.

Che cosa consiglierebbe a un giovane designer?
  Considerato che anch’io sono un giovane designer, penso di poter ricevere ancora tanti consigli io stesso prima di poterne dare ad altri. Forse, uno potrebbe essere proprio quello di continuare a fare domande, chiedere consigli e porre domande a se stessi. Credo infatti che interrogarsi sia un’attività fondamentale per capire chi siamo e chi vogliamo essere, come persone e come progettisti, indirizzando di conseguenza la propria progettazione.

Tre eventi fondamentali/importanti accaduti nella sua vita.
  Aldilà degli eventi personali, l’aver frequentato il liceo artistico mi ha permesso di accrescere moltissimo l’interesse per l’arte, il cinema, l’architettura, oltre alla grafica e alla fotografia. Questo in particolare grazie ad Antonio Romano, docente e artista che ho avuto prima come professore di educazione visiva e poi di progettazione grafica.
  In seguito, l’aver frequentato brevemente il Politecnico di Milano mi ha permesso di dedicarmi allo studio dell’architettura, sviluppando un approccio culturale alla progettazione di tipo architettonico.
  Infine, gli studi alla Scuola Politecnica di Design di Milano, dove ho potuto apprendere le fondamenta della progettazione grafica.
  Aggiungo che per me i momenti di formazione accademica non sono necessariamente importanti in quanto tali, ma lo diventano attraverso la volontà personale di crescere culturalmente. Sono infatti convinto che una buona formazione sia in gran parte da autodidatta.
archivio grafica italianaPh. © Nicola-Matteo Munari
Come spiegherebbe il suo lavoro a un bambino?
  Mi è effettivamente capitato di doverlo spiegare a dei bambini e, considerata la scarsa comprensione che c’è della nostra professione, è spesso necessario spiegarlo nello stesso modo anche agli adulti. Con i bambini tendo a semplificare al massimo, parlando di disegno e non di progettazione, perché è più facile fargli capire che tutto ciò che viene costruito prima viene disegnato.
  Quindi, in poche parole, il lavoro è questo: prima immagino che forma voglio dare a una cosa, tenendo in considerazione l’utilizzo che ne verrà fatto, poi disegno quella cosa con quella forma, in modo da far vedere a chi dovrà costruirla come costruirla nel modo giusto.

Cosa voleva fare da grande?
  Per un po’ da piccolo ho voluto fare il guardaboschi e, a pensarci bene, non credo che mi sarebbe dispiaciuto. In realtà ho sempre voluto fare l’architetto, che per me voleva dire fare il progettista in senso molto ampio—non solo case, ma anche mobili, lampade, oggetti, libri, caratteri tipografici e così via, nella tradizione dei progettisti moderni del Novecento, molti dei quali avevano in effetti una formazione nell’architettura. Sempre con un grande interesse per l’arte. E alla fine penso di aver fatto quello proprio che volevo fare.

Gioco preferito da bambino?
  Ho sempre avuto molti giocattoli, ma non ho mai avuto bisogno di giocare a un gioco di quelli che si possono chiamare con un nome. Semplicemente, avevo molta immaginazione e mi bastava quella per correre e saltellare ovunque, fantasticando su qualsiasi cosa.
  Ci sono in realtà due giochi che facevo che potrebbero aver influito sulla mia passione per il design e l’architettura: mio padre mi faceva disegnare e ritagliare delle bottiglie di vino, inventando insieme la forma e il colore, ma anche l’etichetta e il nome stesso del vino, sviluppando così una certa sensibilità per il design; mentre, più avanti negli anni, disegnavo moltissimi interni di abitazioni, viste in pianta e in prospettiva, immaginandomi ogni dettaglio dalle finestre ai battiscopa, fino agli arredi completi di tutti i libri nelle librerie.

Materia preferita a scuola?
  Alle elementari geografia, alle medie storia, al liceo storia dell’arte, più avanti tipografia.

Carta e penna o computer?
  Entrambi. Carta e penna per fissare l’immediatezza delle idee e stimolare la creatività. Il computer per progettare in modo chiaro, ordinato e preciso. Sicuramente tanto più un progetto è complesso tanto più sono convinto che carta e penna siano sempre indispensabili. Aiutano a trovare una sintesi che permette di comprendere meglio struttura, proporzioni e composizione.
archivio grafica italianaPh. © Nicola-Matteo Munari
Un carattere tipografico.
  Per me la plasticità delle forme dell’Helvetica, o meglio del Neue Haas Grotesk, è di una bellezza straordinariamente moderna. Certamente non è un carattere adatto a tutti gli utilizzi, ma nessun carattere lo è. (Personalmente utilizzo più spesso l’Univers, che trovo più preciso ed elegante, oppure sperimento con altri caratteri, ma sempre nell’ambito di uno stesso linguaggio tipografico). In ogni caso è indubbia l’importanza che l’Helvetica ha avuto nella storia della grafica, specialmente quella italiana, e l’influenza che continua a esercitare sulla produzione tipografica contemporanea.

Un progetto.
  Tra quelli altrui, forse la segnaletica della Metropolitana di Milano disegnata da Bob Noorda. Tra i miei, forse il manifesto Nihon Buyo con il quale ho spogliato l’omonimo manifesto disegnato da Ikko Tanaka, rivelandone la bellezza della geometria. Questo oltre a Designculture e all’Archivio Grafica Italiana, con i quali mi sembra di aver fatto qualcosa di utile e importante per gli altri e per la professione.
  Per ora posso comunque dire che la cosa che mi rende più felice è il fatto che i miei progetti più recenti mi sembrano quasi sempre migliori di quelli fatti in precedenza. Questo mi fa pensare che sto migliorando come progettista e che, acquisendo maggiore esperienza, sto continuando a imparare. E questa credo che sia la cosa più importante.

Un libro.
  Penso che i libri siano tra le cose più belle e importanti che ci siano quindi sceglierne uno solo è molto difficile. Se penso alla progettazione in generale, il primo che mi viene in mente è ‘Parole nel vuoto’ di Adolf Loos, ma vorrei citare anche ‘Da cosa nasce cosa’ di Bruno Munari e ‘Architettura e felicità’ di Alain de Botton.
  Se invece penso alla sola progettazione grafica, per me i libri più belli e interessanti sono i manuali di immagine coordinata, che più di ogni altro rappresentano veri e propri libri di graphic design. Ne ho molti, alcuni progettati da importanti studi e designer tra cui Unimark, e ho avuto la fortuna di progettarne parecchi io stesso.
  I migliori, forse, sono quelli che hanno saputo dare un contributo non solo tecnico ma di cultura progettuale, per esempio il ‘Graphics Standards Manual’ della NASA. Un altro esempio interessante potrebbe essere ‘Graphic Design for Non-Profit Organizations’ di Peter Laundy e Massimo Vignelli, che è una sorta di manuale di manuali, trattandosi di una guida per la progettazione di un’immagine coordinata.

© Nicola-Matteo Munari

Pubblicato da ABA Catania,
Luglio 2023